IL BOSCO

di Jonathan Macini

Dicono che il bosco conosca i segreti. Dicono che abbia occhi nelle fronde degli alberi, e orecchie nelle radici. Io l’ho anche sentito parlare, e la sua voce è il vento che s’incunea tra i rami e accarezza le foglie. Hastur è il suo nome…
D’inverno il bosco è quieto. Il canto dei pochi uccelli è un lamento monotono e privo di significato, un mero impulso istintivo di quelle creature incapaci di abbandonarsi al grande sonno. Il fetore di legno marcio riesce a sopraffare anche il profumo dei sempreverdi, un odore rancido ed antico che mi ricorda la caducità dell’uomo, la sua pochezza di fronte alla vita centenaria di un albero, o a quella secolare di un bosco. Trovo seducente quel verde fosforescente del muschio, che cresce su ogni cosa, come un cancro alieno si espande su alberi e rocce, e anche lui osserva nel tempo del riposo, l’inverno, l’oblio…
Una pietra cilindrica, perfettamente levigata e di colore scuro, sormontata da un’altra priva di forma, con un volto scolpito, o forse no… La mente dell’uomo vede volti dappertutto e forse anche la mia ne è rimasta ingannata. L’ho trovata nel cuore del bosco, non molto lontana dal sentiero principale. Nessuno si è mai chiesto che cos’era, da dove veniva… e come poteva? Quante cose ci sfuggono nella nostra effimera quotidianità? Uomini costretti a sezionare il tempo come un quarto di vitello, e a percepirlo in tre diversi stati; passato, presente e futuro… quanto di più semplice, quanto di più innocente…
Un vento gelido, diverso, mi ha raccontato la storia della pietra. La voce di Hastur, colui che cammina sopra gli alberi e attraverso le montagne, mi ha sussurrato i segreti del tempo, e rivelato il fine degli uomini. La sofferenza terrena è poca cosa in confronto all’abisso che ci attende…
Mi sono lasciato la pietra alle spalle e ho abbracciato il bosco, nel suo silenzio bagnato dalle ultime piogge. Lui mi ha condotto dentro il suo stomaco, nei suoi intestini, e ho visto radici di querce contorte affiorare dalla terra, simili a tentacoli, e rami gocciolanti di liquido oleoso, carminio, e poi l’onnipresente muschio, col suo colore sempre più innaturale, puntellato qua e là da funghi di dimensione alterata, neri e grigi, dalle forme aliene…
Non capivo il perché di quel mio vagabondare, mentre il sole discendeva nella sua breve corsa vicino all’orizzonte. Continuai per ore, ma non saprei davvero dirlo, perché persi completamente il senso del tempo, voglio dire, come noi umani usiamo percepirlo.
Poi da un’ampia pozza di fango che occupava il sentiero, qualcosa ribollì e prese forma, una creatura viscida che s’innalzò sopra di me, due, tre metri di altezza, come un mastino gigantesco provvisto di corna, e fauci capaci d’ingoiare un uomo con estrema facilità. Con la sua improbabile bocca l’essere di fango impartì l’ordine: “Accetta la pietra!” Ed io allora seppi che cosa dovevo fare.
Tornai sui miei passi, ritrovai il sentiero e raggiunsi la pietra che avevo visto, quella priva di forma collocata sopra il cilindro. Accettare significava capire, ed io capii… Il mio sangue era la chiave del cancello.
Appoggiai la bocca sulla superficie fredda del monolite, dischiusi lentamente la mascella stringendo delicatamente tra gli incisivi l’estremità della roccia, chiusi gli occhi, poi feci scattare la testa all’indietro e in avanti con tutta la forza che avevo. Avvertii il contatto profondo come un lampo alternato di luce e tenebra, l’elettricità mischiata al dolore che mi passava attraverso il corpo, il rumore dei miei denti in frantumi che schizzavano in tutte le direzioni e il sapore ferroso del sangue in bocca.
Fu quel gesto ad innescare la tempesta che spazzò via il ridente paese di Dornia, quel funesto giorno di gennaio. Quando successe io ero già lontano, a camminare dentro nuovi boschi…

1 commento

  1. […] quanto riguarda “Il Bosco“, ci sono stato proprio ieri, prima di mettermi davanti al portatile a buttar giù due righe. […]


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